Una Terra senza terre

Solo qualche mese fa gli stabilimenti di Toyota, Subaru e Mazda chiudevano e riaprivano i cancelli a singhiozzo piegati dalla crisi dei semiconduttori. Nel giro di settimane toccò all’Europa: durante il mese di settembre, anche l’impianto di Volkswagen a Wolfsburg, il più grande al mondo, con circa 60mila dipendenti, fu costretto a dimezzare i turni di lavoro. La carenza di microchip, ovvero transistor, diodi, resistori e tutte le altre componenti fondamentali dell’elettronica necessarie ad assemblare circuiti di auto e dispositivi digitali di vario genere si estendeva nel frattempo oltreoceano, alle fabbriche di General Motors e Ford. Allo stesso modo anche i produttori di telefoni cellulari e tablet incassavano un bel colpo. Secondo i dati di Gartner infatti le vendite di smartphone a livello globale nel terzo trimestre 2021 sono diminuite del 6,8% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente. La mancanza di componenti ha ritardato la produzione di telefoni in tutto il mondo, il che  ha anche causato problemi nell’equilibrio tra domanda e offerta spiazzando gli utenti finali con una scelta limitata nei punti vendita.

In questa crisi però c’è anche chi ci ha guadagnato, come nel caso della taiwanese Foxconn, già conosciuta come fornitore di Apple, Dell, HP, Motorola, Nintendo, Sony e Nokia, ma che assembla componenti elettroniche per tutti i maggiori marchi del settore IT. Contro ogni previsione, lo scorso novembre ha registrato in chiusura del terzo trimestre 2021 utili record nonostante la frenata dei chip. Per tutti gli altri la crisi sembra continuare.

È l’inizio di una carestia digitale a cui il mondo non è ancora preparato, è la guerra dei minerali preziosi che rischia di gettare all’aria lo scacchiere globale. 

Tutto ha avuto inizio dalle restrizioni causate dal Covid. La crisi era annunciata, già ad agosto fonti cinesi del settore energetico avvertivano di un possibile cataclisma commerciale dovuto alla chiusura prolungata di due porti strategici nei territori controllati da Pechino per un’esplosione epidemica mantenuta in sordina. 

Controllando il monopolio mondiale nella fabbricazione dei chip, le aziende cinesi hanno causato a cascata ritardi nelle consegne dei materiali per il funzionamento dell’industria globale. E così la Cina ha sperimentato quanto è facile tenere sotto scacco l’intero pianeta. 

L’inasprimento dei rapporti commerciali e il logoramento di quelli diplomatici tra Stati Uniti e Cina, le pressioni cinesi su Taiwan (praticamente sotto protettorato americano) e Corea del Sud – prima potenza mondiale nella produzione dei chip –, nonché le tensioni tra Australia e Cina, hanno alterato un equilibrio geopolitico già molto fragile, destabilizzato dalla corsa ai minerali preziosi. Non è la prima volta che con le sue mosse Pechino ha gelato il mondo. Basti pensare che solo nei primi cinque giorni di ottobre, più di 150 aerei dell’aeronautica dell’esercito popolare cinese sono entrati nella zona di identificazione della difesa di Taiwan, invadendo nei precedenti 4 mesi lo spazio aereo più di un centinaio di volte.

Il Risiko diplomatico del 21esimo secolo è questo, non sposta carri armati, ma tonnellate di terra e miliardi di chip.

Un gioco di strategie tutto nelle mani del governo di Pechino che, giusto in questi giorni, ha operato la fusione fra i tre colossi delle terre rare – China Minmetals Rare Earth, Chinalco Rare Earth and Metals e Ganzhou Rare Earth Group – sotto la nuova denominazione di China Rare Earth Group, dando vita a una superpotenza in grado di controllare il 70% dell’intera produzione cinese di minerali preziosi, i 17 minerali diventati come “acqua nel deserto” per l’industria mondiale, indispensabili per l’assemblamento di prodotti elettronici, delle auto elettriche, e non, fino alle turbine eoliche. 

Le stime sul dominio della Cina nell’industria delle terre rare variano molto. Alcuni analisti affermano che la Cina estrae oltre il 70% delle terre rare del mondo ed è responsabile del 90% del complesso processo di trasformazione in magneti. Un rapporto della Casa Bianca ha stimato che la Cina controlla il 55% delle miniere di terre rare del mondo e l’85% del processo di raffinazione.

Secondo l’US Geological Survey la Cina da sola rappresenta il 97% della produzione globale di questi elementi e sospetta che il governo del Paese stia cercando di alterare il numero di elementi delle terre rare che possono essere esportati. Un numero esatto non lo sapremo mai, basti pensare che negli anni la Cina ha potuto consolidare una posizione leader nella gestione delle terre rare in tutto il mondo perché ha fatto affidamento su reti diplomatiche che hanno stretto alleanze con Paesi del medioriente e dell’Africa centrale – considerati veri e propri vespai dalle potenze occidentali – in cambio di prestiti per la costruzione di infrastrutture moderne. La sua merce di scambio sono state le terre rare.

 

In un rapporto, l’US Geological Survey definisce “minerali critici” quegli elementi, sostanze o materiali essenziali per la sicurezza economica, la cui catena di approvvigionamento è molto vulnerabile, minerali che hanno una funzione centrale nella fabbricazione di un prodotto (tecnologia energetica, difesa, valuta, agricoltura, consumo, elettronica e applicazioni sanitarie), la cui assenza avrebbe conseguenze significative per la sicurezza economica o nazionale di un Paese.

Insomma non si tratta solo di chiudere qualche stabilimento, la questione è più complessa di quello che appare. Questi elementi sono preziosi ed estremamente rari a causa della loro distribuzione, perché non si trovano in grandi depositi e, soprattutto, sono molto costosi a causa dei complicati processi di estrazione, attraverso solventi organici, per esempio, tramite la separazione magnetica, o ad alte temperature di circa 1.000 gradi. Sistemi dove spesso più del 50% dell’elemento si perde nel processo di separazione.

I numeri delle materie prime necessarie per l’era digitale ed ecologica sono sconvolgenti. Ma limitiamoci a due esempi: se pensassimo di introdurre entro il 2030 sul mercato europeo 25 milioni di veicoli elettrici dovremmo prima procurare 8 milioni di tonnellate di litio. E dove si trova una quantità tale? 

L’altro esempio è offerto dal mercato dei dispositivi mobili. Una tonnellata di schede elettroniche dei telefoni cellulari a fine vita contiene in media 276 g di oro, 345 g di argento, 132 kg di rame. Se si considerano poi altri componenti, come magneti e antenne integrate ad esempio, l’elenco si allunga comprendendo le terre rare (quali ad esempio neodimio, praseodimio e disprosio) che possono raggiungere 2,7 kg per tonnellata di smartphone.

La Cina non solo intende controllare a livello politico quella che appare un’arma strategica nello sviluppo industriale internazionale, bensì anche consolidare la sua leadership attraverso la soppressione della principale criticità: il mercato libero dei prezzi. Sembra questo uno dei motivi che ha spinto Pechino a siglare la fusione delle tre grandi società, al fine di prevenire sul nascere tentazioni di concorrenza nella ricerca di lucrosi contratti esteri dei tre grandi gruppi.

La nostra crescente dipendenza dai metalli delle terre rare ha spinto anche i leader dell’UE a ripensare le loro catene di approvvigionamento, spinti dal timore che le tensioni tra l’Occidente e la Cina siano destinate solo a peggiorare.

Il segnale più eclatante si è avuto con la dichiarazione di Capodanno del Commissario per il mercato interno dell’UE, Thierry Breton, il quale ha senza mezzi termini dichiarato che Bruxelles punta a una legge per dotarsi di poteri di emergenza col fine di garantire le sue forniture, compresi i metalli delle terre rare.

«Non si tratta di produrre tutto in Europa, ma di mettere in sicurezza l'intera filiera» ribadisce Breton, richiamando l’attenzione sul fatto che la pandemia ci ha dimostrato l’urgenza di garantire catene di approvvigionamento resilienti in settori come i metalli delle terre rare.

Ma il problema è che la maggior parte delle miniere su cui punta l’Europa per svincolarsi dalla dipendenza cinese, che si trovano in Paesi come Australia, Brasile, Canada, Sudafrica, Tanzania, Groenlandia e Stati Uniti, sono state chiuse a causa dell’ingresso della Cina nei mercati delle terre rare negli anni ’90, a causa dei prezzi al ribasso imposti da Pechino e con scarse o per non dire “nulle” preoccupazioni ambientali. Questi Paesi potrebbero riavviare la loro produzione, ma ci vorranno anni per competere col monopolio cinese.
















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