Gli accordi di Glasgow e il sapore amaro del futuro

La Conferenza sul clima di Glasgow ha confermato quello che da un grande summit internazionale ci si poteva aspettare: la vittoria del meccanismo e delle logiche delle Nazioni Unite sull’obiettivo finale. Non possiamo biasimare i rappresentanti dei governi che hanno preso parte alla Cop26, almeno ci hanno provato ma, a fronte delle alte aspettative riposte in questa assemblea avrebbero potuto fare di meglio.

Ricordiamoci che a Rio de Janeiro durante il “Summit della Terra” nel 1992 si siglarono accordi che segnarono per sempre il rapporto di ogni Paese con le questioni ambientali mentre a Glasgow questo non è accaduto; per ciò si poteva fare di più, perché già in altre occasioni è stato conseguito qualcosa che sembrava impossibile. Bisogna tener conto che allora c’erano ancora ampi margini di intervento.

Quando si presentano 200 Paesi chiedendo l’accordo, il meglio che può succedere, come ha detto il segretario dell’Onu, António Guterres, è di “raggiungere il minimo comune denominatore delle posizioni di tutti”. Ecco appunto, il minimo.

 

Il documento finale emerso dalla Cop 26 di Glasgow, frutto di giorni di serrate trattative, alcuni sostengono sia un tradimento di tutti i principi che avrebbero dovuto muovere questa Conferenza sul clima, giustamente definita da molti come “l’ultima possibilità a nostra disposizione per tentare di invertire una rotta altrimenti già segnata”. L’accordo conclusivo si è rivelato infatti persino peggiore della bozza diffusa nei giorni precedenti e, a tutti gli effetti, si dimostra essere nient’altro che un nulla di fatto. 

Sulla base dei dati forniti dall’Intergovernmental Panel on Climate Change, le stime dicono che con gli attuali impegni presi dai leader della Cop 26 arriveremo ad un aumento delle temperature di +2,4 gradi entro il 2100 e che il solo modo per evitare che questo accada è puntare ad un taglio delle emissioni del 65% entro il 2030.  

Se non si interverrà in modo più deciso tra 10 anni, al posto di una graduale diminuzione, è previsto un aumento del 16% delle concentrazioni di CO2 rispetto al 2010, secondo un’analisi della Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici. In questo scenario porsi il 65% come obiettivo di riduzione sembra francamente fuori portata ma, secondo le proiezioni, pare sia l’unico modo per arrivare a frenare il riscaldamento globale abbastanza da limitare a 1,5ºC l’aumento delle temperature. 

Al di là di stime e previsioni, il buon senso porta a supporre che i Paesi più emettitori siano quelli che più dovranno impegnarsi in questa transizione, eppure ancora una volta non è così. Sembra uno scherzo di cattivo gusto ma purtroppo non lo è.

 

Prendiamo il caso della Cina: il presidente Xi Jinping ha appena dato il visto buono ad un aumento nella produzione giornaliera di carbone di oltre un milione di tonnellate aggiudicandosi di fatto la metà della quota globale di estrazione. 

Secondo l’Eia, l’agenzia statistica e analitica del dipartimento dell’energia del governo statunitense, dal carbone la Cina ha ricavato il 58% dell’energia che ha consumato nel 2019. E nessuno la può fermare. Nella prima metà del 2021 sono stati costruiti 18 nuovi altiforni per l’acciaio e 43 centrali elettriche a carbone. Così facendo oggi emette il 30% delle emissioni di anidride carbonica globali, il valore equivalente a quelle prodotte da Stati Uniti, Unione Europea e India messe insieme, una vera e propria barbarie ambientale. 

Quindi, non per essere catastrofisti, ma con la Cina “fuori controllo” la situazione non sembra affatto a nostro favore, con buona pace del New Green Deal e degli obiettivi sostenibili dell’Agenda 2030.

Ma veniamo agli accordi conclusivi di Glasgow. A cosa si è giunti di fatto?

Prima di tutto dovremmo ritenerci fortunati che i Paesi del mondo puntino adesso a mantenere il riscaldamento globale sotto 1,5 gradi dai livelli pre-industriali. L’Accordo di Parigi del 2015 poneva come obiettivo principale i 2 gradi, e 1 grado e mezzo come quello ottimale. Con Glasgow, 1,5 gradi diventa l’obiettivo principale, e i 2 gradi diventano lo scenario peggiore.

L’accordo si pone l’obiettivo di tagliare del 45% le emissioni di anidride carbonica nel 2030 rispetto alle concentrazioni del 2010. E zero emissioni nette “intorno” alla metà del secolo, nessuno si è voluto sbilanciare sulla scelta dell’anno per il “net zero”.

Dal documento finale emerge l’urgenza di accelerare il processo di diffusione della tecnologia delle fonti rinnovabili e al contempo quello di dismissione delle centrali a carbone e dello stop ai sussidi per le fonti fossili.

Come già era stato fatto nel Summit della Terra di Rio, anche a Glasgow la Conferenza delle Parti riconosce l’importanza di giovani, donne e comunità indigene nella lotta alla crisi climatica, e stabilisce che la transizione ecologica dovrà essere giusta ed equa. 

 

Ma, a proposito di equità, ecco dove la Cop 26 ha fallito: gli aiuti ai paesi meno sviluppati per affrontare la crisi climatica. Alok Sharma, presidente della Cop 26, ha affermato che le nazioni sviluppate dovranno rispettare l’impegno di destinare un totale di 500 miliardi di dollari per aiutare i paesi più in difficoltà ad affrontare il cambiamento climatico, onorando così la promessa fatta nel 2009 di iniettare liquidità con un fondo da 100 miliardi di dollari all’anno per cinque anni, a partire dal 2020. Sul come farlo però emergono dubbi di esecuzione: da un piano preparato da Canada e Germania prima del vertice, si ha evidenza che l’obiettivo annuale non potrà essere raggiunto fino al 2023. 

Il documento elaborato a Glasgow invita i paesi ricchi a raddoppiare i loro stanziamenti, e prevede un nuovo obiettivo di finanza climatica per il 2024. Ma nel testo non è fissata una data per attivare il fondo da 100 miliardi di dollari all’anno. Insomma ancora una volta “a data da destinarsi”.

Altro risultato di Cop 26 è il patto di collaborazione fra Usa e Cina sulla lotta al cambiamento climatico. Più che a un “accordo storico” assomiglia a una messa in scena per nascondere sotto al tappeto il carbone cinese e le trivelle americane nel golfo del Messico.

 

Uno degli accordi più interessanti della Cop 26 di Glasgow è stato il patto voluto da Danimarca e Costa Rica, chiamato BOGA – Beyond Oil and Gas Alliance. Questo patto prevede tre livelli di adesione: il primo come core members, ossia i Paesi che si impegnano a non emettere più licenze, concessioni o leasing per l’esplorazione o la produzione di petrolio e gas, come Groenlandia, Québec, Francia, Svezia, Irlanda e Galles; il secondo livello riguarda gli associate members, ossia quei Paesi che si impegnano a tagliare i sussidi e i finanziamenti pubblici per l’esplorazione e la produzione di petrolio e gas, sia all’estero che sul territorio nazionale, come California, Nuova Zelanda e Portogallo; da ultimo, il terzo livello, i friends, riservato a quei Paesi che si impegnano ad allineare la produzione di petrolio e gas con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e a sostenere una transizione globale socialmente giusta ed equa. L’Italia è l’unico Paese ad essere entrato nel BOGA come “amico”.

Come quegli amici che a volte sbagliano ma, si sa, rimangono pur sempre “amici”.



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