Il respiro del mondo

È sempre più necessario parlare delle piante e meno di piantare nuovi alberi se si continuano a deforestare i grandi polmoni del mondo. Le piante sono comparse sulla Terra 500 milioni di anni fa e sopravvivranno anche senza di noi. Siamo sicuri di voler salvare l’ambiente piantando alberi e non salvare noi stessi nel Pianeta? Non sarebbe meglio mantenere in salute la bellezza della natura riducendo i disboscamenti e cambiando il paradigma ecologico?

 

Dai dati del WWF si apprende che negli ultimi 30 anni la superficie forestale a livello mondiale si è ridotta di oltre 420 milioni di ettari, ad un ritmo, che dal 2010, è di circa 4,7 milioni di ettari all’anno su una superficie forestale globale di 4 miliardi di ettari. 

L’energia del sole è alla base della vita vegetale, che a sua volta è uno dei fattori da cui dipende quella animale. Mentre emettono ossigeno dal processo di fotosintesi, le piante riescono ad assorbire insieme una quantità di CO2 ogni anno pari al 30% delle emissioni antropiche, secondo uno studio pubblicato su “Nature” da César Terrer del Lawrence Livermore National Lab. 

 Da un articolo di Bloomberg intitolato “Plant a Tree, Save the Planet Isn’t Enough” si ha evidenza di un dato per nulla scontato: le foreste naturali assorbono 6 volte la massa di CO2 rispetto a quelle create dall’uomo. E 40 volte di più delle piantagioni, secondo uno studio pubblicato dalla University College London e dalla University of Edinburgh. Piantare alberi perciò non contribuirebbe a riportare al netto l’equazione tra CO2 e deforestazione. Le grandi foreste naturali sono le uniche in grado di intrappolare grandi quantità di anidride carbonica. Le piantagioni assorbono poco più della terra vuota. E ogni volta che gli alberi vengono tagliati e raccolti, viene rilasciata anidride carbonica. Le grandi foreste offrono ulteriori vantaggi: ospitando i due terzi di tutte le specie aiutano a mantenere la biodiversità del pianeta e filtrando l’acqua piovana ne migliorano la qualità. Circa 1,6 miliardi di persone – tra cui oltre 2.000 culture indigene – dipendono dalle foreste per i loro mezzi di sussistenza, medicine, carburante, cibo e riparo, oltre che legna per l’industria e la produzione di energia. Le foreste sono gli ecosistemi più diversificati biologicamente sulla terra. I biologi ritengono che ospitano oltre l’80% delle specie terrestri di animali, piante e insetti.

 

 

Una nuova ecologia delle idee

Per invertire il processo distruttivo innescato dalle attività umane è indispensabile prima di tutto imparare a rielaborare quell’orizzonte simbolico che rappresenta il nostro rapporto con il mondo vegetale, secondo Patrizia Menegoni, responsabile del laboratorio “Gestione sostenibile degli agroecosistemi” dell’Enea. «Questo orizzonte – afferma – induce l’uomo a ritenersi in grado di poter controllare i processi naturali e concepire la sua condizione come indipendente dalle leggi della natura sulla quale crede di imporre un controllo».

Occorre allora riorientare i valori che plasmano il modo di fare esperienza anti-ecologico della modernità e costruire un nuovo paradigma che permetta di rispettare il mondo vegetale per poter conoscere e apprezzare “quel paesaggio che è dentro di noi prima di essere intorno a noi” come dice il saggista e psicologo Ugo Morelli.

Da questa conoscenza più empatica bisogna partire per ricreare il rapporto perduto tra gli uomini e le piante. Una relazione che per Patrizia Menegoni si sostanzia continuamente, ad ogni respiro che facciamo, un gesto che sembra scontato, involontario, ma che rappresenta il primo atto con il quale veniamo al mondo e l’ultimo con cui ce ne andiamo. In quel gesto il nostro rapporto quotidiano con le piante prende forma. Gli anni della pandemia hanno aiutato a comprendere meglio questa relazione che instauriamo con le piante attraverso il respiro, se manca quello è un po’ come sentirsi pesci fuor d’acqua.

Sul pianeta si contano 391 mila specie di piante conosciute a cui ogni anno se ne aggiungono circa 2 mila. Moltissime di queste specie sono però sull’orlo dell’estinzione a causa dell’occupazione del suolo dedicato ad aree agricole e ad insediamenti urbani. Le città rappresentano un nodo nevralgico bipolare da cui può dipendere la morte degli ecosistemi ma anche un nuovo rapporto con il mondo vegetale. Una nuova ecologia delle idee dovrà prima o poi riconoscere alle piante un valore intrinseco, svincolato da desideri, interessi e benefici che  possiamo trarne per affrontare il cambiamento climatico.

 

Il dolore nelle piante

La capacità delle piante di provare dolore è un tema dibattuto e al centro di studi scientifici. Sono capaci le piante di sentire il dolore come gli altri esseri viventi?

Molti indizi portano a sospettare di sì, o meglio, a non poter essere certi di escludere il contrario. Non siamo ancora riusciti a scoprire se questo meccanismo evolutivo agisca anche nelle piante ma sappiamo, secondo le più accreditate definizioni mediche, che il dolore si relaziona principalmente con il senso del tatto e che le piante sono in grado di percepire il tatto. Lo confermerebbe senza equivoci il caso della “Mimosa pudica”, che deve il nome alla sua capacità di rispondere a stimoli tattili o alle vibrazioni richiudendo le foglie su se stesse. «La scienza ci porta a dire che forse esistono meno differenze di quelle che crediamo fra gli animali e le piante – spiega Alessandra Viola, giornalista, scrittrice e docente universitaria presso la Cà Foscari di Venezia – Per esempio, sotto un un punto di vista evolutivo la differenziazione tra cellule vegetali e animali è da considerarsi piuttosto recente, questo ci permette di condividere parte del nostro corredo genetico con le piante».

 

 

Alcuni studi riportati da Alessandra Viola confermerebbero che le piante inviano segnali di allarme attraverso i vasi linfatici nel momento in cui le loro foglie sono attaccate dai predatori. Si attivano così delle risposte a questi segnali per richiamare insetti antagonisti e produrre sostanze velenose o neuroattive che agiscono sul cervello degli erbivori che le attaccano. È forse questo uno dei modi attraverso cui sperimentano il dolore?

Claude Bernard, fisiologo francese considerato il fondatore della medicina sperimentale, portò avanti ricerche con gli anestetici sulle piante, osservando che l’anestesia induceva una specie di sonno nelle cellule vegetali. Può questo “sonno” rappresentare una mancanza di sensibilità al dolore? Ancora non lo sappiamo.

Certo è che abbiamo molte remore a parlare del dolore nelle piante dal momento che radiamo al suolo intere foreste. Dal 1982 le Nazioni Unite adottarono il “principio di precauzione” grazie al quale oggi possiamo dire che se non siamo in grado di escludere con certezza che le piante soffrano dobbiamo imparare a trattarle come se soffrissero.

Iniziamo a considerare i diritti delle piante per poter includere anche il mondo vegetale tra gli esseri viventi degni del nostro rispetto.

 

 

 

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