Il Summit della Terra di Rio de Janeiro: come tutto ebbe inizio

Il Summit della Terra, tenutosi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992, ha segnato una svolta epocale nei rapporti geopolitici sui temi ambientali e della sostenibilità sociale ed è stata la prima conferenza mondiale dei capi di Stato a riconoscere al clima lo status giuridico di “bene comune”. Gli impegni di oggi dipendono in qualche modo da quel percorso intrapreso a Rio agli inizi degli anni ‘90, solo che ora ci tocca fare i conti con problematiche esacerbate dal tempo.

 di Francesco Improta *

 

La Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo (più comunemente conosciuta come “Summit della Terra" di Rio) fu un evento senza precedenti in termini di impatto mediatico, di scelte politiche e di partecipazione. Mai, prima di allora, infatti, un così elevato numero di Paesi (172), capi di Stato o di governo (108), rappresentanti di organizzazioni non governative (2.400) e persone aderenti all’ONG Forum (17.000), sedettero ad un unico tavolo per guardare la Terra come mai era stato fatto sino a quel momento, ovvero come la casa di tutti ma, soprattutto ammettendo che doveva – finalmente – essere vista come una responsabilità di tutti!

Si giunse a importanti accordi tra le parti in gioco, fra i quali la “Convenzione Quadro delle Nazioni Unite” sui cambiamenti climatici che a sua volta portò, alcuni anni dopo, alla stesura del “Protocollo di Kyōto”. 

La Convenzione Quadro è  un trattato internazionale (aperto alle ratifiche il 09/05/92) che, sebbene non vincolante per i Paesi ratificanti, assume un ruolo, in ogni caso, di straordinaria importanza poiché, non sempre, affinché un documento riesca a raggiungere le intenzioni dei suoi promulgatori deve contenere l’obbligatorietà di fare o non fare…talvolta, anche la mera partecipazione alla stesura dello stesso se viene mediaticamente esplicitata (come nel caso di specie) pone, sulle spalle del sottoscrittore, un peso egualmente vincolante ed, infatti, con il “Summit della Terra” si iniziarono a promuovere politiche per un impegno internazionale congiunto, volto allo sviluppo di azioni in grado di contrastare i cambiamenti climatici. Di fatto, fu una vera e propria presa di coscienza globale in cui si riconobbe, già nel 1992, che la stabilità del sistema climatico era danneggiata dalle emissioni di diossido di carbonio e/o, comunque, di gas ad effetto serra.

Come detto sopra, il Trattato non conteneva dei veri e propri obblighi sanzionati per i Paesi aderenti ma, va detto che, un effetto giuridicamente rilevante lo si può – anzi lo si deve – ricordare ed ovvero che, il sistema climatico, era ed è un “bene comune”, creando, così, l’identità per qualcosa che fino ad allora rappresentava un bene immateriale non tutelato sul piano legislativo internazionale. Infatti, come concetto generale di facile comprensione, affinché un bene possa essere oggetto di tutela normativa, occorre prima che venga circoscritto e ben qualificato giuridicamente…ebbene, grazie agli Accordi di Rio il “clima” viene cristallizzato nel Trattato, come “bene” da proteggere, per avviare un dibattito concreto sulle misure da attuare in concerto tra tutti i Paesi.

 

 

Ciò detto, e nonostante l’importante presa di coscienza generale, si doveva pur partire da qualche parte per rendere successivamente concreti, pratici ed operativi i futuri incontri, accordi ed impegni internazionali, così, i Paesi aderenti alla Convenzione che entrò in vigore il 21 marzo 1994, stabilirono nel corpo del Trattato, di raccogliere – a livello globale – dati e misurazioni sulle emissioni dei gas serra, stabilendo, contestualmente, quali dovessero essere le linee guida per contrastare il cambiamento climatico.

Nel Trattato si parlava anche di cooperazione tra il sistema politico, industriale e sociale per trovare misure di un futuro adattamento dell’uomo e dell’ambiente agli squilibri dei cambiamenti climatici. In Italia la Convenzione Quadro fu ratificata nel 1994, con la legge n. 65 del 15/01/1994. 

Dalla redazione di questo primo trattato ambientale, prese forma quello che passò alla storia come “Protocollo di Kyōto” che altro non fu, se non un atto aggiuntivo alla Convenzione Quadro di Rio; sottoscritto nel 1997 da più di 160 paesi in occasione della COP3 dell'UNFCCC ed entrato in vigore il 16 febbraio 2005.

 La Convenzione di Rio ed il suo Protocollo (di Kyōto), sono due documenti che, sebbene muovano nella medesima direzione hanno contenuti molto diversi e producono effetti giuridici profondamente differenti.

Mentre, infatti, la prima spingeva i paesi industrializzati a verificare, controllare, stabilizzare e ridurre le emissioni di CO2, il Protocollo di Kyōto (entrato in vigore solo nel febbraio 2005) prima di tutto rappresentava una vera e propria ammissione di responsabilità circa le emissioni climalteranti degli ultimi 150 anni, da parte degli Stati industrializzati e, conseguentemente, obbligava gli Stati aderenti ad adottare misure concrete, in grado di invertire la rotta di questo disastroso andamento plurisecolare! 

Risulta di particolare interesse geopolitico ma anche meramente giuridico l’introduzione, a Kyōto, di un concetto fondamentale: quello delle “responsabilità comuni ma differenziate”. Si comprese, infatti, che gli effetti climalteranti legati alle emissioni dei gas serra, così come la necessità di intervenire per la loro riduzione configurava una vera e propria “responsabilità” e come tale doveva essere trattata anche da un punto di vista obbligazionale e sanzionatorio ma, allo stesso tempo, fu ben chiaro agli estensori del Protocollo che, il peso e l’onere derivante dalle responsabilità, doveva essere commisurato alle caratteristiche del singolo Paese ratificante. Ecco perché furono individuati una serie di specifici e ben dettagliati obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 assolutamente vincolanti per i 37 Paesi industrializzati, per quelli con economie in transizione (riportati nell’Annex B) e per la Comunità europea, giungendo alla conclusione che dal 2008 al 2012 le dette emissioni di CO2 si sarebbero dovute abbattere – in media – almeno del 5% rispetto al 1990.

Un obiettivo oggi ridicolo, ma che per i tempi era un risultato importante; insomma, non si sarebbe potuto ottenere di più. Il Protocollo di Kyōto non solo vincolava i Paesi a introdurre misure per contenere le emissioni all’interno dei propri territori, ma obbligava a seguire lo stesso principio anche al di fuori dei confini nazionali attraverso il mercato delle emissioni (Emission Trading), nonché mirando al raggiungimento della collaborazione tra Paesi sviluppati (Joint Implementation) e tra Paesi sviluppati e in via di sviluppo, mediante l’applicazione del “Clean Development Mechanism”, volto a consentire (se non spingere) alle imprese dei Paesi industrializzati di realizzare progetti per la riduzione dei gas serra nei Paesi in via di sviluppo.

Naturalmente queste modalità di cooperazione, avevano delle regole operative ben precise, rivolte ad evitare che si potessero creare situazioni, in ogni caso, dannose per l’ambiente e le popolazioni indigene. Ad esempio era prevista l’esclusione di progetti potenzialmente pericolosi, come l’installazione di centrali nucleari o la costruzione di grandi dighe per la produzione di energia elettrica.

 

La Convenzione sulla diversità biologica 

Uno dei risultati di maggior interesse sociale del Summit della Terra di Rio fu la “Convenzione sulla diversità biologica”, entrata in vigore nel 1993 con un triplice obiettivo: la conservazione della diversità biologica, l’uso sostenibile dei componenti della diversità, la giusta ed equa suddivisione dei benefici provenienti dall’uso delle risorse genetiche. Già nelle prime righe introduttive si accennava all’importanza del ruolo giocato dalle popolazioni indigene, dalle comunità locali, dalle loro tradizioni e dai loro stili di vita. Un concetto molto avanguardista per i tempi, che metteva l’accento sull’impatto ambientale generato dal mancato rispetto per la biodiversità.

Tutte le attività a beneficio dell’ambiente, da allora in avanti, avrebbero dovuto fare i conti con questi aspetti non più trascurabili. Un’urgenza ribadita dall’articolo 8 della “Convenzione sulla diversità biologica” dove si afferma che gli Stati devono saper preservare le conoscenze, le tradizioni e le consuetudini dei popoli indigeni. Questa ricchezza immateriale divenne così “patrimonio della biodiversità”. 

 

L’Agenda 21

Il Summit della Terra portò i Paesi partecipanti a prevedere un programma di azione non vincolante a livello internazionale per uno sviluppo sostenibile: l’Agenda 21. Il suo obiettivo era preparare il mondo intero alle sfide dell’industrializzazione del 21esimo secolo. L’Agenda proponeva una serie di azioni molto dettagliate per intervenire sull’asse sociale ed economico con l’obiettivo di combattere la povertà, cambiare le logiche di consumo per la conservazione delle risorse, preservare le foreste e le fonti energetiche, promuovere un’agricoltura sostenibile. 

Si trattava di un ulteriore impegno da parte dei governi che sembravano concordi nel ritenere che l’integrazione tra il rispetto dell’ambiente e gli obiettivi di sviluppo economico-industriale fosse la base per generare un nuovo concetto di sostenibilità che trovasse un equilibrio tra progresso e conservazione affinché tutti potessero godere di un futuro migliore.

Nel preambolo dell’Agenda 21 si afferma che questi obiettivi sarebbero stati raggiungibili solo mettendo insieme le forze di tutti. Lo sviluppo sostenibile poteva essere raggiunto grazie al contributo di tutte le componenti della società, attraverso il rispetto e l’integrazione delle tradizioni dei popoli indigeni e dei loro antichi saperi.

 

 

Dichiarazione di Rio su ambiente e sviluppo

Nel declinare in ben 27 principi i diritti e le responsabilità delle nazioni nei riguardi dello sviluppo sostenibile mira ad ottenere una cooperazione a largo spettro non solo tra gli Stati ma anche attraverso la partecipazione e la sensibilizzazione dei cittadini interessati a tutti i livelli.

Tra i principi di cui sopra, appare di particolare interesse il “Principio 22” che sottolinea il ruolo chiave dei popoli indigeni nella gestione delle buone pratiche ambientali grazie a conoscenze, a volte tramandate oralmente, che trovano una loro applicazione nel rito e nelle tradizioni culturali. Trattandosi di saperi in buona parte ancestrali risultava indispensabile la tutela della loro integrità per fare in modo che potessero diventare una componente integrante dello sviluppo sostenibile. Agli Stati veniva richiesto di riconoscere il ruolo vitale delle collettività locali, i loro interessi, e accordare tutto il sostegno necessario per consentire la loro partecipazione al nuovo modello di sviluppo.

Nel “Principio 13” si riconosceva la responsabilità degli Stati e il loro impegno nel risarcimento per i danni causati dall'inquinamento e altri danni causati all’ambiente obbligando i Paesi più industrializzati a un indennizzo a beneficio delle vittime degli effetti del clima. Le nazioni più avanzate economicamente e tecnologicamente avrebbero in sostanza dovuto farsi carico della responsabilità finanziaria garantendo così ai Paesi più poveri la possibilità di uno sviluppo sostenibile.

Nella Dichiarazione di Rio si riconosceva inoltre la sovranità di ogni Paese e il suo libero accesso alle risorse naturali ma senza arrecare danno all’ambiente. Era di fatto un diritto limitato.

 

Principi sulle foreste

Furono approvati a Rio in quanto rappresentanti di quel pezzo mancante del puzzle che definiva la sostenibilità a livello globale. Per la prima volta i Principi sulle foreste furono inseriti in un trattato che li definiva fondamentali non solo per l’ambiente ma anche per l’economia mondiale e il benessere dei popoli. 

Nel “Principio 2” si riconobbe l’importanza spirituale che questi luoghi hanno da sempre rivestito per i popoli indigeni e le loro tradizioni ancestrali. Le foreste sono la casa di molte culture che detengono un sapere indispensabile alla preservazione di un equilibrio. In questo senso si giunse alla conclusione che fosse indispensabile parlare delle popolazioni indigene come di vere e proprie “risorse economiche” in grado di mettere a disposizione degli altri la loro conoscenza a servizio dell’ambiente.

Nel “Principio 12” infatti fu riconosciuto come le conoscenze indigene potessero costituire una possibile fonte di sostentamento per i vari Paesi ma, allo stesso tempo veniva anche ed espressamente ricordato che gli eventuali ricavi discendenti da tali fonti di sostegno economico al paese avrebbero dovuto essere equamente divise con chi era, in fin dei conti, il detentore di quel sapere divenuto così importante per lo sviluppo sostenibile del Paese stesso.

La dichiarazione dei Principi sulle foreste si concluse con un monito ai Paesi più sviluppati per uno sforzo congiunto verso un mondo più sostenibile attraverso la proliferazione di normative per la tutela del patrimonio forestale.

Il Summit della Terra fu un’occasione senza precedenti per affrontare i temi riguardanti i popoli indigeni che, peraltro, negli stessi giorni si incontrarono a Kari-Oca (Brasile) per discutere e condividere le tematiche riguardanti l’ambiente, il territorio e lo sviluppo. Gli aspetti di maggior rilievo furono: 1) da una parte la grande affluenza dei popoli indigeni (più di 650 rappresentanti) alle conferenze e agli eventi culturali; 2) l’adozione di ben 109 punti elencati nella “Carta della Terra dei Popoli Indigeni” e nella “Dichiarazione di Kari-Oca”. Orbene, potrebbe apparire – a prima vista – una fra le tante Conferenze internazionali ma, invece, a mio parere, fù di straordinaria importanza poiché, tali documenti costituiscono una non indifferente crescita evolutiva per questi popoli indigeni che individuarono un modo innovativo ed efficacie per stringere accordi sovranazionali.

Venne siglato, inoltre, un accordo volto ad impedire l’installazione di attività produttive  – ove insistono popoli indigeni – atte a degradare l’ambiente o tali da risultare culturalmente lesive o anche solo inappropriate.

 

 

Francesco Improta, avvocato e imprenditore nel settore delle bioplastiche e del mondo Token. Ha fondato la Valore Holding Group S. R. L. ad aprile 2018 e, con essa, la Bío Valore Word S. P. A. Società Benefit (BVW spa). A novembre 2018 la BVW spa ha lanciato il progetto EarthBi che unisce il mondo delle bioplastiche con la realtà degli utility Token e della Blockchain industriale. È stato membro della Commissione di Diritto Ambientale del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati Napoli. Fa convegnistica sul territorio nazionale in materia di Criptovalute, Token economy e Blockchain.

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