Idrogeno verde, il figlio del sole e del vento

È versatile, si definisce vettore e non carburante, ha una densità energetica che è circa tre volte quella del petrolio, non produce direttamente emissioni inquinanti o gas serra nella fase di utilizzo, motivo per cui è uno dei più importanti e discussi driver per il futuro della decarbonizzazione. Ha un enorme potenziale per risolvere la sfida della transizione energetica nelle industrie a consumo critico, come navale, aerea, siderurgica e chimica. Ha un solo inconveniente: per estrarlo è necessario il contributo di un processo energetico. Per questo si ripongono tutte le speranze nelle fonti rinnovabili quando oggi si parla di idrogeno verde.

 

È l’elemento più abbondante nell’Universo, è il principale costituente di cui sono composte le stelle, dalla fusione dei suoi nuclei in un plasma a milioni di gradi dipendono i processi di reazione termonucleare responsabili dell’energia che giunge alla Terra sotto forma di calore e luce. Nel nostro pianeta si trova per lo più ingabbiato in una molecola di acqua e il paradosso è che, seppur così abbondante, non esiste in natura.

La corsa all’idrogeno è iniziata da tempo ma oggi ne abbiamo quanto mai bisogno per risolvere una volta per tutte la partita globale della decarbonizzazione. Per la sua produzione non si ricorre solo al processo elettrolitico a partire dall’acqua ma per lo più all’estrazione da fonti fossili con conseguente immissione in atmosfera di circa 830 mila tonnellate di CO2 in un anno, l’equivalente delle emissioni di anidride carbonica prodotte da Regno Unito e Indonesia messe insieme, secondo i dati della International Energy Agency. 

Queste cifre sono però al punto di ridimensionarsi, perché gli obiettivi del 2030 hanno imposto un cambiamento così radicale nei parametri di emissioni carboniche (55% in meno) che gli operatori hanno iniziato a prendere in considerazione l’unica vera strada davvero percorribile: produrre idrogeno da energia rinnovabile. Al momento il gas naturale è la prima fonte energetica dedicata alla produzione di idrogeno, a seguire il carbone (dovuto al suo ruolo dominante in Cina), mentre una minima parte è generata dall’utilizzo di elettricità.

 

Progetti di ricerca in Europa e Italia

Siamo al punto di lasciarci per sempre alle spalle la produzione di questo ‘idrogeno grigio’ e portare nel prossimo decennio dall’attuale 3% al 100% la produzione di idrogeno verde, che promette un giro d’affari di 191,8 miliardi di dollari già dal 2024.

In Europa il mercato H2 è concentrato nella regione di nord-ovest dove si concentra il 6% della produzione mondiale e il 60% di quella dell’intero continente. Non è un caso che in questa zona rossa dell’idrogeno si siano da tempo sviluppati i più grandi e attivi porti commerciali e le migliori infrastrutture per la distribuzione di gas, nonché le più avanzate tecnologie di parchi rinnovabili nel Mare del Nord.

Anche in Italia l’idrogeno promette bene, i progetti sono in cammino da una ventina d’anni e dal 2007 sono stati investiti 135 milioni di euro nelle partnership pubblico/private per lo sviluppo di soluzioni innovative. Dalla piattaforma ‘Fuels Cells and Hydrogen Undertaking’ – risultato di una lunga cooperazione internazionale tra governi europei, rappresentanti dell’industria, comunità scientifica e società civile – sono stati stanziati per il nostro paese 107 milioni di euro per iniettare liquidità volta a finanziare oltre 160 progetti, secondo i dati riportati dall’Enea. 

Coinvolta in primo piano su differenti progetti a idrogeno, l’agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo sostenibile, ha messo a segno due obiettivi di particolare rilevanza in ambito marittimo, considerato un ecosistema perfetto per abilitare le potenzialità e la generazione di valore nella filiera dell'idrogeno. Uno di questi si chiama H2 Ports, per il quale sono state studiate tecnologie per la movimentazioni merci nel porto di Valencia e l’altro, chiamato e-Ships, che prevede uno studio sull’utilizzazione dei sistemi a idrogeno nell’alimentazione dei motori delle grandi navi passeggeri.

Da maggio 2021 ha preso il via un progetto da 14 milioni di euro presso il centro di ricerca della Casaccia per testare le dinamiche di filiera dell'idrogeno su scala reale attraverso lo studio nel dettaglio di tutte le fasi: produzione, trasporto, distribuzione e utilizzo. L'obiettivo è dimostrare i vantaggi e la fattibilità di questa iniziativa green per replicare un modello di hydrogen valley sul territorio italiano.

 

Grigio, blu, verde

A livello mondiale si producono 70 milioni di tonnellate annue di idrogeno, in Italia circa mezzo milione. Si tratta per lo più di idrogeno grigio, prodotto da fonti fossili, e di quello chiamato blu che, nonostante il nome molto evocativo, viene estratto con l’utilizzo di gas o carbone le cui emissioni sono catturate e sequestrate geologicamente come fossero un ostaggio ambientale. Bene, ma non benissimo: nascondere la polvere sotto al tappeto non è mai stata l’opzione migliore. Per di più la Corte dei conti europea ha già da qualche anno espresso le sue perplessità in merito a quei 3,7 miliardi di euro al tempo stanziati dalla Commissione di Bruxelles per il progetto ‘carbon capture and storage’ (CCS) dichiarando quei fondi inutilizzabili e considerando la cattura e il sequestro del carbonio una tecnologia superata dal mercato. Il futuro deve essere solo verde e per questo obiettivo siamo già sulla strada giusta, basti pensare all’esplosione del parco rinnovabili che ci attende nei prossimi anni. Si impone la necessità di individuare soluzioni di storage efficienti. Che ne faremo altrimenti di tutta questa energia nel momento in cui verrà prodotta quando non ne avremo bisogno? Con la futura sovrapproduzione di energia elettrica da fonti rinnovabili si inizierà a porre il dilemma delle eccedenze, cosa fare dei picchi di accumulo se, dopo aver fatto il possibile per gestire al meglio la flessibilità degli impianti, non c’è consumo? L’unica alternativa concreta sembra la conversione di questo surplus verde in idrogeno, per due motivi: primo, per trasformare l’energia elettrica non consumata in un altro vettore energetico di semplice stoccaggio; secondo, perché nonostante oggi la decarbonizzazione avvenga per lo più grazie all’utilizzo del vettore elettrico, esistono impieghi energetici in cui l’elettrificazione non è l’alternativa adeguata.

 

Costi stellari, ma ancora per poco

Qui entra in campo l’idrogeno, con tutte le sue attuali limitazioni: la bassissima domanda (l’1% dell’energia totale consumata), le infrastrutture scarse, il processo di elettrolisi a 1000 euro per kilowatt, una produzione condizionata dalla irregolarità delle rinnovabili, i costi di ammortamento alti. Per dare una proiezione da qui a qualche anno sarebbe auspicabile fissare il costo di produzione dell’idrogeno tra i 5 e i 6 euro per chilogrammo. Di per sé rappresenterebbe un passo avanti per la sua introduzione sul mercato energetico ma, anche se riuscissimo a scollinare questo valore, risulterebbe ancora troppo caro se paragonato al costo del gas naturale, a oggi sui 60 centesimi di euro al chilogrammo.

E gli ostacoli non finiscono qui; anche il trasporto potrebbe incidere su un quadro generale già non particolarmente roseo poiché sulle brevi distanze saranno necessari appositi autocarri carichi di grandi cilindri a pressione, sulle medie distanze serviranno pipeline dedicate, mentre sugli scambi intercontinentali sarà indispensabile il trasporto marittimo, tutti aggravi che porterebbero il prezzo finale quasi a raddoppiare il costo stesso di produzione. Ma questi sono per così dire solo “happy problem” considerando i benefici che ne trarremo in futuro.

La buona notizia è che già dopo il 2030 la richiesta di elettricità da fonti rinnovabili subirà un’impennata senza precedenti grazie a una estensione dei consumi che ci porterà dritti all’obiettivo carbon free del 2050 con la produzione di un verdissimo idrogeno a prezzi stracciati. A quel punto saremo pronti a sostituire del tutto i combustibili fossili nell’industria ad alto carico energivoro e nel trasporto pesante.

 

Idrogeno, una ‘never ending story’

Ad analizzare questi scenari sembra ovvio supporre oggi che tramite l’idrogeno si possano portare a massa critica molto rapidamente le energie rinnovabili decarbonizzando i processi produttivi. Suona come la filosofia energetica del futuro, ma le sue radici ci riportano al passato. Nel 2002 infatti, quando ancora in Europa non si progettava una strategia energetica comunitaria, il primo a parlare di idrogeno verde fu Jeremy Rifkin nel libro ‘L’economia dell’idrogeno’, una storia che anticipava di vent’anni quella attuale. Quel libro catturò l’attenzione dell’allora Presidente della Commissione Europea Romano Prodi che, incuriosito, avviò progetti di ricerca e sviluppo in quel campo ingaggiando Rifkin in qualità di consulente personale in questioni energetiche. Dal 2002 una serie di cambiamenti culturali sul tema ambientale scossero l’opinione pubblica degli stati membri tanto da adottare poco alla volta politiche convergenti. Questo passaggio fu lento e graduale per via delle strategie che storicamente hanno determinato la sovranità energetica nazionale di alcuni paesi, attraverso l’utilizzo del nucleare in Francia, del carbone in Polonia o dell’eolico in Scandinavia, solo per fare un esempio. 

Presa finalmente coscienza che il problema energetico-ambientale non ha confini, con la comunicazione numero 640 del dicembre 2019, l’Europa unita approvò il Green Deal, una vera strategia economica più che energetica, volta a integrare in armonia tutte le forze della terza rivoluzione industriale.

Uno dei punti cardine di questa strategia è espresso nella comunicazione 301 dell’8 luglio 2020 che considera l’idrogeno il vettore energetico primario per il raggiungimento degli obiettivi climatici del 2050.

Ma facciamo un passo indietro. Già nella legislatura 2006/2007, durante la presidenza di Angela Merkel, l’Europa lanciò il cuore oltre l’ostacolo con l’approvazione del ‘pacchetto clima-energia’ con quella che sembrava una dichiarazione di guerra alle lobby del nucleare, già pronte a salire in sella una volta abbandonate le fonti fossili. La formula era quella del famigerato 20-20-20: ciò a cui si puntava entro il 2020 era ridurre le emissioni di CO2 del 20% rispetto al 1990, aumentare il consumo di energie rinnovabili del 20%, migliorare l’efficienza energetica del 20%. Con il passare degli anni l’asticella per l’abbattimento delle emissioni carboniche si alzò prima al 37% puntando al 2030; la Commissione Europea la ritoccò poi al 40% fino a quando, sotto l’attuale presidenza di Ursula von der Leyen, si fissò il 55% con l’obiettivo di garantire la neutralità climatica entro il 2050. Da questa “mission impossible” nasce la strategia dell’idrogeno verde, unica alternativa in grado di massimizzare il contributo al mix energetico delle rinnovabili che, per capricci di accumulo e discontinuità di generazione, necessitano di essere trasformate in un vettore stabile.

 

Verso un’Europa unita dall’idrogeno

La Commissione Europea ha disegnato una road map che prevede in futuro l’utilizzo di idrogeno verde in tutti gli impieghi finali dell’energia, per ogni settore. Si tratta di un piano ambizioso che mira al disegno degli ‘Ecosistemi dinamici dell'idrogeno’. I benefici per l’Europa sarebbero enormi, stando ai dati dell’associazione Hydrogen Europe: entro il 2050 l’utilizzo della quota di energia rinnovabile dovrebbe rappresentare il 25% del totale con il conseguente abbattimento di 560 milioni di tonnellate di CO2. Secondo queste proiezioni l’idrogeno verde avrebbe il potenziale per creare un mercato con un giro d’affari da 820 miliardi di euro generando 5,4 milioni di posti di lavoro. Il numero di elettrolizzatori da installare entro il 2030 a livello europeo supporterà una potenza di 40 mila megawatt per raggiungere una produzione di 10 milioni di tonnellate di idrogeno verde entro il 2030. Se guardiamo all’Italia, questa sfida richiede l’installazione di elettrolizzatori per erogare una potenza di oltre 5 mila megawatt, una cifra spaventosa, uno scenario per il quale al momento non siamo preparati.

Sicuri dei nostri limiti stiamo gettando le basi per una solida collaborazione internazionale in ambito infrastrutturale che vede dieci paesi europei, tra cui l’Italia, uniti sotto l’egida della European Hydrogen Backbone, una rete di impianti dedicata al trasporto di idrogeno che nel 2040 serpeggerà lungo quasi 40 mila km mettendo in contatto 21 paesi. Circa il 70% di questa rete  di idrogeno europeo è composta da gasdotti già esistenti, il rimanente 30% da impianti di nuova generazione necessari a connettere consumatori di paesi con alto potenziale di offerta e domanda di idrogeno ma che attualmente non dispongono di una rete di gas naturale adeguata.

Per questi 40 mila km di rete di idrogeno si stima un investimento che potrebbe variare dai 43 miliardi di euro nello scenario più ottimistico agli 81 miliardi in quello più pessimistico.

 

I progetti pionieri nell’industria

Serviranno nuove competenze ma il tempo a disposizione per formare le figure professionali emergenti dedicate alla produzione e installazione degli elettrolizzatori si fa corto. Inoltre il mercato richiede produttori e tecnici di auto, bus, treni e aerei a idrogeno. Degno di nota in questo nuovo business dei trasporti green il progetto della Alstom che da tempo ha introdotto convogli a idrogeno su linee non elettrificate in Germania; in Italia è già stato siglato un accordo con Ferrovie Nord per la fornitura di sei treni per un investimento complessivo di 160 milioni di euro. E al momento questo è tutto dal piano di trasporti ferroviario nazionale.

Nell’industria aerospaziale i progetti sono in fase di studio ma il futuro è promettente; la Airbus punta a mettere in commercio dal 2035 una serie di aviojet a idrogeno chiamati Zeroe, tre modelli per corto, medio e lungo raggio che incorporano la tecnologia H2 per alimentare i motori. Al momento le criticità da superare sono due: per utilizzare l’idrogeno in volo è necessario trasformarlo in stato liquido mantenendo una temperatura di -235 gradi; nonostante sia tre volte più denso del cherosene risulta quattro volte più ingombrante in termini di volume, motivo per cui sono allo studio soluzioni innovative per i serbatoi innestati direttamente nella fusoliera degli aeromobili.

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